mercoledì 16 aprile 2014

CLASSICI E NON. RIFLESSIONI SUL CANONE LETTERARIO

In un suo recente articolo, Eugenio Scalfari fa riferimento, parlando dei voltagabbana di professione, al Brindisi di Girella, capolavoro di Giuseppe Giusti; un poeta, come tanti altri del nostro patrimonio letterario, passato da decenni nel più completo dimenticatoio. E siccome Giusti è uno dei miei poeti preferiti, non posso certamente lasciar passare invano, tanto per citare proprio il titolo di una bella poesia del Giusti, questo “Mementomo” a dire il vero del tutto inaspettato. E oltre al Mementomo e al Brindisi, Giusti di capolavori ne ha scritti molti. Per citarne alcuni vale la pena di ricordare La Vestizione, L’ Apologia del lotto o Il ballo: “scherzi” in assoluto tra gli esempi più alti della nostra poesia satirica di qualsiasi epoca, compresa quella classica. Se del Giusti tuttavia oggi rimane qua e là qualche traccia, questa porta necessariamente ad altri titoli, quelli che la mia generazione, che il Giusti lo incontrava alla scuola media ma non più alle superiori, aveva studiato sulle antologie scolastiche e che si chiamavano Sant’Ambrogio o Il Re travicello: vale a dire il peggio della sua produzione, che tuttavia era assai stimata dal mondo scolastico tardo ottocentesco, che proiettò i propri contenuti, e spesso i propri limiti (Le veglie di Neri, Piemonte, La  cavallina storna o l’Ettore Fieramosca), fino alla metà degli anni sessanta e oltre. Solo attraverso l’aiuto di qualche maestro all’università o per semplice inclinazione a non accontentarsi delle idee correnti, avremmo scoperto, e poi insegnato, che esisteva un Fucini grandissimo, ma era quello di Napoli ad occhio nudo e non quello paternalista e consolatorio delle Veglie; e che al Guerrazzi si poteva ampiamente preferire De Roberto; e che esisteva un Carducci grandissimo, ma era ben altro rispetto ai cipressetti e ai pianti antichi, e certamente Sogno d’estate era degno d’essere imparato a memoria anche per aiutarci a dimenticare Traversando la Maremma toscana. Così come al Pascoli antologizzato e insegnato, ahimè anche alle superiori, se ne contrapponeva un altro che avremmo divorato nella sua drammatica modernità di spaurito atomo sfigurato dal suo stesso esistere. E con altrettanta passione avremmo divorato da adulti quel Pinocchio che i contestatori a cavallo degli anni sessanta e settanta non vollero leggere, forse perché si riconoscevano troppo nel burattino che non sapeva crescere, ma che almeno non giocava, come purtroppo facevano molti di loro, a fare la guerra. Lo avrebbe recuperato Luigi Comencini, un grande regista che lesse l’opera di Collodi come nessun altro fino ad allora aveva saputo fare, riuscendo, a regalarci un capolavoro di rara e struggente bellezza non inferiore all’opera letteraria. E nessuno ci avrebbe letto una riga della Colonna infame e avremmo dovuto farlo da soli e leggendola ci avrebbe  ancor più chiarito che il carnaio di violenza che accompagnava negli anni ’70 le nostre giornate era pura macelleria di esaltati macellai, che non avremmo mai voluto al comando perché le loro facce e i loro fanatismi si stampavano perfettamente nelle facce immaginate degli inquisitori di ogni epoca e di ogni latitudine. 
In molti insegnavamo letteratura grazie ad un canone letterario che ci costruivamo progressivamente a livello personale, ma che non era solo frutto della nostra invenzione e della nostra creatività: era anche il frutto di una accanita ricerca di autori che si confermassero nel loro essere sempre attuali, in grado, attraverso le loro opere, di parlare di noi, dei nostri allievi e degli uomini del futuro. La passione e l'interesse si traducevano in un sistema preciso e costante, fatto di punti di riferimento imprescindibili grazie ai libri a nostra disposizione: i classici, appunto, istituzionalizzati e non, ma in grado di rappresentare esempi da tramandare e conservare e per questo indispensabili a farci insegnare con la voglia, per dirla con Machiavelli, di interrogarli e chieder loro conto delle loro affermazioni. E dialogando e insegnando il dialogo, avevamo addosso la presunzione di trasmettere ai ragazzi il desiderio di libertà e per questo ci pareva di parlare con le stesse parole e con le stesse voci dei ragazzi che, in nome della libertà, quella vera, quella dalla tirannide nazista e fascista, erano andati a morire. Come, tra i tanti, il diciannovenne Tommaso Masi, contadino di Castelnuovo Berardenga, che scrisse, poco prima di cadere davanti al plotone d’esecuzione, la sua ultima, sgrammaticata, bellissima, e senz’altro da annoverare tra i classici, lettera alla famiglia. Così il futuro ci appariva  luminoso e insegnare la cosa più bella del mondo.
Valerio Vagnoli