venerdì 3 gennaio 2014

PREMIARE I MIGLIORI INSEGNANTI MIGLIORA LA SCUOLA? (“Scuola Democratica” n.6 Nuova serie – Ottobre 2012)

di Giorgio Ragazzini 
 Parole chiave: Valutazione – Qualità media dei docenti – Governo della scuola 
Sintesi: Premiare i migliori insegnanti non migliora la qualità media e può anzi creare tensioni e insoddisfazione fra i colleghi. Molto meglio sforzarsi di garantire che tutti i docenti siano almeno sufficienti sia per capacità che per correttezza professionale. A questo scopo bisogna anche poter provvedere subito nei casi di palese inadeguatezza. Meglio investire le scarse risorse a disposizione per affidare a docenti selezionati i nuovi ruoli indispensabili al governo delle scuole.
Anche per i docenti, come per gli allievi, sarebbe bene distinguere sempre tra valutazione formativa (che include l’autovalutazione) e valutazione certificativa (anche detta sommativa). Più che per le metodologie da adottare (alcune vanno bene per l’una e per l’altra) si differenziano per lo scopo che si prefiggono. La prima serve a mettere a fuoco i punti di forza e di debolezza di un insegnante, in modo da potenziarne l’efficacia didattica. La seconda entra in gioco nei passaggi in cui si accerta il possesso di determinati requisiti: l’abilitazione all’insegnamento, l’immissione in ruolo, i concorsi a dirigente scolastico e via dicendo. È il tipo di valutazione a cui ci si riferisce ordinariamente parlando di scuola.
Negli ultimi anni, com’è noto, si è sviluppato un dibattito sul merito e sulla valutazione, soprattutto a partire dal concorso proposto da Berlinguer, che, nonostante l’assenso sindacale, dovette poi fare marcia indietro per via della fortissima resistenza della categoria. Essa fu dovuta sia al meccanismo previsto per la selezione, che un editoriale del “Corriere della Sera” definì “avvilente lotteria”, sia alla convinzione che fosse ingiusto essere pagati diversamente “a parità di lavoro”. Certo tra chi protestava c’era anche chi rifiutava puramente e semplicemente di essere in qualsiasi modo valutato; il che non stupisce, visto che la normativa e più ancora la prassi corrente escludevano a priori non solo il riconoscimento del merito, ma anche un effettivo controllo sull’adeguatezza e la correttezza professionali. Lo smantellamento del corpo degli ispettori scolastici è stato una conseguenza e insieme una riprova di questa cultura politica.
Nonostante quell’iniziale insuccesso, l’obbiettivo di “premiare i migliori” come leva per migliorare la scuola sembra rimanere l’unica idea in campo riguardo al merito; e di recente, con il ministro Profumo, è risorta dalle ceneri di un altro esperimento, il progetto “Valorizza” varato dal precedente ministero, che stentò molto a trovare adesioni fra le scuole. Probabilmente molti sono convinti che l’unico problema sia quello di abituare gli insegnanti all’idea di essere valutati, come se le modalità della valutazione e le dinamiche che si possono innescare nella comunità scolastica non fossero poi così importanti[1].
La questione della valutazione dei docenti va pensata con grande concretezza, in modo che siano chiari sia i vantaggi per il sistema scolastico, sia le possibili controindicazioni. Diamo per scontato che nel porsi questo problema ci si attendono degli effetti positivi sulla qualità media e sul livello di motivazione del corpo insegnante.
Proponiamo perciò di partire da questa domanda: per migliorare la qualità della scuola è più utile individuare e premiare economicamente i migliori insegnanti o lavorare perché tutti i docenti siano almeno “sufficientemente buoni”? A noi pare molto più sensato puntare sulla seconda prospettiva. Dal punto di vista dell’interesse collettivo, infatti, ci si deve chiedere quanto la qualità media dei docenti crescerebbe premiando chi già lavora molto bene e probabilmente continuerebbe comunque a farlo in quanto motivato dalle soddisfazioni professionali che via via ottiene. C’è poi una controindicazione molto seria che riguarda il clima interno alle scuole: individuare gli insegnanti più meritevoli significa inevitabilmente tracciare una linea che li divide da quelli appena meno meritevoli e comunque da chi fa dignitosamente il proprio lavoro, con il probabile risultato di demotivare dei buoni insegnanti. Oltre a tutto in questi ultimi si acuirà la consapevolezza di essere retribuiti esattamente quanto quel certo collega assenteista o incapace di cui tutti si lamentano. 
Effetti indesiderati di questo genere vengono riferiti da Giorgio Allulli nel saggio sulle politiche riformatrici basate sulla verifica dei risultati nel numero 3 di questa rivista. Di queste politiche Allulli fa un bilancio in chiaroscuro, in cui però le ombre sono abbastanza consistenti da sconsigliare l’uso di questo approccio per premiare o “punire” scuole e insegnanti. Coloro che sono contrari, infatti, sostengono tra l’altro “che la sollecitazione di una competizione tra i docenti compromette la cooperazione all’interno della scuola, che invece rappresenta un valore ed una dimensione fondamentale di un efficace insegnamento”[2]. Quest’ultima considerazione dovrebbe valere anche per il metodo cosiddetto “reputazionale”, cioè basato sull’opinione degli studenti, dei genitori e dei colleghi, anche se la sua minore complessità tecnica crea probabilmente meno dubbi e diffidenze nei docenti valutati.
Dunque, se è vero che una maggiore retribuzione degli insegnanti migliori presenta più svantaggi che vantaggi e che tra questi ultimi non c’è neppure un incremento della qualità del corpo docente, forse non vale la pena di insistere su questa strada. La quale, oltre a tutto, suggerisce un’errata identificazione tra merito ed eccellenza (come del resto il “pacchetto del merito” proposto dal Ministro Profumo). Le eccellenze devono essere valorizzate in tutti i campi, ma sono solo un aspetto del merito, la cui essenza è l’impegno serio nel coltivare i propri talenti, di qualsiasi genere essi siano. In altre parole, più ancora del migliore merita chi dà il meglio di sé[3].
Volendo dunque elevare la qualità media degli insegnanti e quindi della scuola italiana, secondo noi le due priorità in tema di valutazione dovrebbero essere queste: 
1 - Poter intervenire tempestivamente nei casi di palese inadeguatezza[4] e di grave o ripetuta scorrettezza professionale di un docente. La presenza di una minoranza di insegnanti di queste due tipologie è dannosissima per il prestigio della scuola pubblica e soprattutto per i ragazzi con cui hanno a che fare. Anche quei dirigenti che invece del proprio quieto vivere vorrebbero tutelare gli studenti e la scuola attualmente si scontrano con una carenza di strumenti e con lungaggini procedurali, tanto che spesso finiscono per arrendersi di fronte allo stress e alle frustrazioni a cui vanno incontro. Sanzionare i comportamenti scorretti e provvedere nei casi di insufficienza professionale significherebbe invece riconoscere indirettamente il merito di tutti gli altri docenti che fanno almeno dignitosamente il loro dovere e spesso molto di più, un po’ come una lotta efficace all’evasione fiscale rende giustizia e dà soddisfazione ai contribuenti corretti. 
2 - Selezionare tra gli insegnanti, tramite procedure concorsuali, le nuove figure professionali indispensabili per un governo efficiente delle scuole autonome. Si tratta di fare un passo avanti rispetto alle funzioni obbiettivo o strumentali, scarsamente retribuite e affidate a quei pochi che sono di volta in volta disponibili, non di rado forniti solo di buona volontà, spesso in assenza sia di una seria progettazione che di una reale verifica del loro lavoro. La scuola ha bisogno di docenti in possesso di talenti ulteriori rispetto all’insegnamento, docenti che sappiano occuparsi di aggiornamento, della formazione dei nuovi insegnanti (anche tramite distacchi all’università), dei servizi alla didattica, della progettazione curricolare. In una situazione di risorse molto scarse, gli investimenti necessari per la creazione di questo “ceto di governo” sarebbero a nostro avviso molto più remunerativi rispetto alla politica delle “eccellenze”. 
Ma il contesto indispensabile per far funzionare le riforme è quello in cui chi ne ha la responsabilità fa rispettare costantemente le regole (da integrare dove necessario) e in cui la scuola dà dimostrazione di serietà, di trasparenza e di equità in ogni aspetto della sua giornata. Una effettiva condivisione di questi valori  offrirebbe un fondamentale sostegno ai singoli docenti, specie nel caso di classi difficili. Inutile auspicare che siano tutti “carismatici” o illudersi che i problemi disciplinari si possano interamente riassorbire con una nuova didattica. C’è invece in non pochi docenti e dirigenti un disorientamento etico prima ancora che professionale, che impedisce di avvertire come scorretti e iniqui comportamenti che in altri paesi sono inconcepibili. Tollerare che si copi nei compiti in classe e durante gli esami, quando non si aiutano attivamente i candidati, alterare ad libitum le valutazioni negli scrutini – cioè falsificarle – per giustificare promozioni non fondate sui risultati di apprendimento, non sanzionare i comportamenti che impediscono il regolare svolgimento delle lezioni sono tutti casi in cui a quanto pare non si percepisce il danno grave che ne deriva agli studenti che si impegnano e al ruolo educativo della scuola. Sarebbe di grande utilità a questo proposito che gli insegnanti e i presidi potessero far riferimento a dei princìpi etico-deontologici condivisi[5] o se si preferisce a degli standard professionali.
Merito e responsabilità, quindi, assunti dalla scuola come criteri guida, non solo non sono in contrasto con l’impegno a portare tutti a dare il meglio, ma ne costituiscono la condizione ineliminabile, cioè la cornice di un lavoro sereno e produttivo.
Quanto alla valutazione formativa e all’autovalutazione, si tratta indubbiamente di una pratica del tutto trascurata nella scuola italiana, mentre potrebbe costituire una leva essenziale per migliorarla in ciò che ha di più prezioso, la professionalità degli insegnanti. Ogni insegnante serio desidera migliorarsi e si esamina in proposito. Si tratta in fondo di farlo in modo  più sistematico e più metodico, per individuare con maggiore precisione i punti su cui lavorare. E il complemento indispensabile della valutazione formativa dovrebbe essere il sistematico confronto con i colleghi con il metodo seminariale, cioè tra professionisti che hanno ciascuno esperienze positive, successi didattici, punti di forza, ma anche problemi e difficoltà da condividere e da discutere. Indubbiamente lo scambio tra pari, oltre a mettere in comune competenze e conoscenze utili a tutti, ha l’effetto di valorizzare e motivare, di restare aderenti alle reali esigenze dei partecipanti, di arricchire nel confronto la riflessione sulla propria esperienza professionale. 
Riassumendo: siamo convinti che cominciare a valutare “dal basso” invece che “dall’alto”, per garantire almeno la sufficienza professionale (inclusa quella etico-deontologica) sia più produttivo di qualità, meno divisivo e molto meno costoso rispetto alla linea dell’ “eccellenza”. Le poche risorse disponibili per una “politica del personale” andrebbero invece utilizzate per retribuire gli insegnanti in grado di contribuire validamente al governo delle scuole autonome. Tutto questo, infine, deve avere per contesto un nuovo clima di serietà e di rigore, che ancora troppi associano pigramente all’autoritarismo e alla conservazione, mentre sono la condizione indispensabile per avere una scuola e una società più giuste.


[1] Un esempio di questa sottovalutazione lo si trova in un articolo di  Gian Antonio Stella (La caccia bipartisan ai consensi facili, “Il Corriere della Sera”, 28 ottobre 2008), che così argomenta: “Uno su cinque era troppo poco? Può darsi. Dovevano essere definiti meglio i criteri? Può darsi. Il sistema dei quiz non era l' ideale? Può darsi. Ma l' obiettivo del ministro era chiaro: «Va introdotto il concetto di merito. Chi vale di più deve avere di più». Fu fatto a pezzi.”  
[2] Giorgio Allulli, Le politiche scolastiche e l’Output Driven Approach, “SD” n. 3, novembre 2011.
[3] Vedi Giacomo Vaciago, Meritocrazia: come valorizzare tutti i talenti, Cei, Perugia, 17 novembre 2007. Il testo è pubblicato sul nostro blog Gruppo di Firenze Documenti. Vaciago scrive tra l’altro: “Quello che conta per essere giudicati positivamente non è il differente punto di partenza, né quello di arrivo, ma l’impegno profuso a far crescere la dote iniziale, qualunque essa sia”.
[4] Rientrano  in questo tipo i casi di “esaurimento nervoso” (oggi burnout ), che, stando agli studi e ai rilevamenti del dottor Lodolo D’Orìa, sono in netto aumento tra gli insegnanti. Naturalmente nei casi meno gravi potrebbe essere sufficienti interventi di sostegno e di riqualificazione, in quelli più seri - se praticabile - l’utilizzazione in altre mansioni.
[5] L’Associazione Docenti Italiani (ADi) ha redatto un proprio codice etico-deontologico, che però è poco conosciuto. Maggiori possibilità in questo senso avrebbero avuto i Principi etici della professione docente della Gilda degli Insegnanti, ma per il momento non ne ha mai fatto oggetto di una sistematica opera di sensibilizzazione.