venerdì 6 settembre 2013

PERCHÉ LA NORMATIVA SUI B.E.S. AGGRAVERÀ LA CRISI DELLA SCUOLA

Con la direttiva del 27 dicembre 2012 sugli alunni con Bisogni Educativi Speciali e la circolare applicativa del 6 marzo 2013 fa un decisivo passo avanti l’idea che la scuola non deve più essere l’istituzione che assicura la trasmissione del patrimonio culturale della nazione e in quanto tale trascende, pur includendole, le esigenze dei singoli, ma piuttosto un servizio in grado di modellarsi sulle caratteristiche e le richieste di ciascuno. La frase chiave della direttiva è infatti la seguente: “Ogni alunno, con continuità o per determinati periodi, può manifestare Bisogni Educativi Speciali: o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta”. È evidente che in base a una simile affermazione qualsiasi tipo di difficoltà potrà costituire un Bisogno Educativo Speciale. Questa normativa costituisce dunque la sintesi e il punto di arrivo di una serie di tendenze convergenti manifestatesi negli ultimi decenni:  l’abbandono, a favore di mere indicazioni, dei programmi nazionali, cioè di un canone culturale essenziale, che tenda a formare gli individui nel quadro di un’identità comune; l’idea di trasformare gli insegnanti in facilitatori dell’autoapprendimento; la progressiva eliminazione degli esami; la graduale evaporazione di ogni standard, sia pure elastico, nella valutazione dei risultati, dunque di traguardi minimi comuni a tutti, condizione essenziale di equità nonché di credibilità dei diplomi rilasciati; e infine – last but not least – l’idea onnipotente che l’organizzazione, la metodologia e la tecnologia possano da sole creare le condizioni per l’apprendimento, cioè che il “successo formativo” dipenda integralmente da quanto fanno a questo scopo gli insegnanti; quasi che non fosse, come invece è, l’esito non scontato del rapporto tra due soggetti, il maestro e l’allievo, ma il risultato meccanico di una serie unilaterale di azioni. Manca infatti anche in questi testi il più piccolo accenno alla responsabilità del discente, che la scuola non può certo smettere di sollecitare, soprattutto come impegno costante e comportamenti appropriati. Lo scrive bene Adolfo Scotto di Luzio nel suo ultimo libro, sottolineando che quasi nessuno parla più della “volontà” di imparare nella riflessione pedagogica e nelle direttive ministeriali: 
“Per fare bisogna innanzitutto avere la voglia di fare e la volontà richiede determinazione, una capacità di sopportare la fatica e la sua applicazione continuativa, qualità morali di diligenza, di sforzi sostenuti e di concentrazione, di accuratezza. Qualità che la scuola ha il diritto di esigere, ma che difficilmente può produrre soprattutto trattando con adolescenti. Accanto a esse un senso personale della disciplina e il riconoscimento dell’autorità dell’insegnante, in grado di imporre dei compiti, di esigerne l’esecuzione e sanzionare efficacemente le inadempienze. Un sentimento infine della responsabilità individuale dei propri successi e dei propri fallimenti, concepiti come propri e non come l’applicazione più o meno efficace della professionalità del docente” (La scuola che vorrei, p.106). Si deve aggiungere che queste caratteristiche personali rinviano necessariamente a un’educazione familiare capace di “consegnare” alla scuola figli già in grado di rispettare le regole minime della convivenza, mentre la scuola, per parte sua, ha il dovere di offrire alle nuove generazioni ambienti educativi non solo accoglienti, ma abbastanza esigenti da sostenerli nel faticoso quanto indispensabile confronto con la realtà, base della loro crescita umana e culturale.
In questo quadro, pazienza se fossimo davanti soltanto all’ennesima sollecitazione ministeriale a dare risposte adeguate alle difficoltà degli allievi. Purtroppo non è così. Qui si tratta del tentativo di mettere in piedi una macchina organizzativa e un insieme di procedure che rischiano di stritolare l’autonomia professionale dei docenti, oltre a caricarli di pesanti compiti e oneri burocratici, accrescendone il disorientamento e la frustrazione.
E infatti, come dovrebbe funzionare la nuova “scuola dell’inclusione”? Dalla tormentosa lettura dei documenti ministeriali si capiscono abbastanza chiaramente due cose: la prima è che gran parte del lavoro aggiuntivo ricadrà appunto sulle spalle degli insegnanti, trasformati, ovviamente senza una seria preparazione, in diagnosti e valutatori dei propri allievi in funzione di trattamenti differenziati; la seconda è che viene istituito un groviglio di competenze e di procedure a carico di commissioni, gruppi di lavoro, centri di sostegno e di coordinamento, che non si sa come potranno integrarsi e di cui nel migliore dei casi esistono solo degli abbozzi: i Centri Territoriali di Supporto (CTS) e i Centri Territoriali per l’Inclusione (CTI), in collaborazione con i Gruppi di Lavoro Interistituzionale Regionale per l'integrazione scolastica degli alunni con disabilità (GLIR) e con i GLIP (provinciali). Sarà necessaria “la creazione di una rete diffusa e ben strutturata tra tutte le scuole”. Si dovrà far riferimento, per i docenti specializzati, “soprattutto a risorse interne”, cioè ai pochi insegnanti già specializzati e ai molti aggiornati alla meno peggio. E via coordinando, supportando e mettendo in rete. 
A livello di ogni singola scuola, il GLHI (Gruppo di lavoro per l’Handicap d’Istituto) diventa GLI (Gruppo di Lavoro per l’Inclusione) e i suoi compiti “si estendono alle problematiche relative a tutti i BES”. In base ad analisi e rilevamenti, dovrà sottoporre al Collegio un Piano Annuale per l’Inclusività. Ma non si capisce come possa essere operativo un organismo pletorico composto da funzioni strumentali, insegnanti per il sostegno, Assistenti Educatori Culturali, assistenti alla comunicazione, docenti ‘disciplinari’ con esperienza e/o formazione specifica o con compiti di coordinamento delle classi, genitori [sic] ed esperti istituzionali o esterni in regime di convenzionamento con la scuola”.
All’interno dell’ingranaggio di prescrizioni, obblighi, verbali, rendicontazioni previsto dalla normativa, che fine fa la libertà dell’insegnante di decidere in scienza e coscienza che cosa è meglio per quel certo allievo? Potrà ancora metterlo di fronte alle sue responsabilità, sollecitarne la presa di coscienza, attenderne la maturazione, semplicemente parlarci, insomma fare quello che la sua sensibilità educativa gli suggerirà sul momento, oppure sarà indotto a verbalizzare senza crederci un qualsiasi pseudo-programmino che lo metta (forse) al riparo da eventuali ricorsi? E i genitori-sindacalisti non disporranno con questa normativa di un accresciuto potere di ricatto e di veto sulle decisioni dei docenti?
Il minimo che gli insegnanti e i collegi docenti dovrebbero esigere, quindi, è una ridefinizione molto più restrittiva del concetto di bisogno educativo speciale,  in modo da limitare quanto meno i danni. Ma non c’è dubbio che sia necessaria un’alternativa complessiva a questa imbracatura burocratica della didattica, che esprime una sostanziale sfiducia nell’autonoma capacità dei docenti di individuare e affrontare le normali difficoltà dei propri allievi. È un’alternativa fondata su due pilastri: pieno riconoscimento dell’autonomia professionale dei docenti su quando e come intervenire; e qualificati servizi di supporto e di consulenza a loro disposizione. Una chiara distinzione dei ruoli è assolutamente necessaria. Anche un insegnante ben preparato non avrà mai le competenze di uno specialista che ha studiato per anni la sua disciplina, né le acquisirà con un’infarinatura sulla dislessia o sul deficit dell’attenzione. Nella scuola ci si comporta invece come se in un ospedale, in mancanza di un anestesista, si rimediasse facendo fare a un chirurgo un corso di tre mesi per poter svolgere anche questo ruolo. Invece, un po’ come succede nella scuola finlandese, gli insegnanti dovrebbero poter contare su consulenti (ben preparati) in grado di fornire il necessario supporto su problemi di singoli allievi o di una classe: logopedisti, psicologi, neuropsichiatri, assistenti sociali. E questo con il minimo necessario di formalità, preoccupandosi cioè soprattutto dell’efficacia e della tempestività degli interventi, invece di sprecare energie nella produzione di piani, documenti di intenti e complicate progettazioni da parte di gruppi e sottocommissioni. In altre parole, si sostituirebbe a un’impostazione, che per più motivi grava pesantemente sui docenti, un’altra in cui – con ben altra efficacia – questi ultimi vengono invece alleggeriti da un eccesso di compiti e di responsabilità. Peraltro il contributo di queste figure di esperti non deve riguardare necessariamente la didattica, anche perché in molti casi le difficoltà di apprendimento di un ragazzo dipendono da fattori esterni alla scuola (personali, familiari, ecc.). Quindi per superarle è necessario l’intervento, ad esempio, di uno psicoterapeuta o di un assistente sociale. Purtroppo solo poche scuole hanno già la fortuna di sperimentare un modello simile, con cui certamente si ottengono risultati positivi senza imporre ai docenti altri gravami. Beninteso, la titolarità delle decisioni deve restare saldamente nelle mani dei docenti, deve cioè trattarsi di una collaborazione senza invasioni di campo tra ruoli diversi, basata su competenza, buon senso e rispetto reciproco.
Ammesso e non concesso che questo modello, certo da realizzare gradualmente, sia più costoso, non è comunque sensato intraprendere per questo una strada sbagliata, che non solo rischia di produrre avvilimento negli insegnanti, ma non è in grado di dare risposte ai problemi che questa normativa vorrebbe risolvere. (Giorgio Ragazzini)