giovedì 26 settembre 2013

LA SCUOLA DI FRONTE A DIFFICOLTÀ E DISABILITÀ: PIÙ FLESSIBILITÀ E MENO STEREOTIPI ANNI '70

Il professor Michele Zappella, neuropsichiatra dell’età evolutiva, è noto per avere studiato a lungo l’autismo nelle sue varie forme. Fin dagli anni sessanta si è occupato dell’integrazione sociale e scolastica dei disabili, l’argomento che torna in questo intervento sul nostro blog, insieme a quello del bisogni educativi speciali. 

Il tema del bell’articolo di Giorgio Ragazzini sui BES del 6 settembre scorso e sull’effetto negativo che le nuove norme probabilmente avranno in prospettiva su tutta la scuola, riducendo all’individuo ogni problema e dando a questo una soluzione strettamente personale, si inserisce in una lunga storia che val la pena di ripercorrere e che risale ai primi anni settanta quando ha inizio il processo dell’integrazione scolastica in Italia. A questo riguardo va ricordato che una grande motivazione per chiudere le scuole speciali e differenziali fu determinata dal rendersi conto che al loro interno c’era un gran numero di figli di emigrati italiani interni (dal Sud al Nord) ed esterni (verso altri Paesi d’Europa), messi da parte perché parlavano in dialetto ed erano culturalmente deprivati. Metterli in classi particolari aveva il significato di dare a dei bambini normali un percorso educativo di serie B: ed è bene ricordare che c’erano scuole speciali dove ogni classe (la prima, la seconda, ecc.) veniva sistematicamente ripetuta per due anni! La conseguenza era una prospettiva di lavoro sottoqualificato, che inchiodava il bambino ad un futuro di marginalità. Questo fu il principale argomento che persuase dapprima i partiti di sinistra e poi tutti i movimenti politici a proporre l’abolizione dei percorsi differenziali a scuola e a integrare tutti i bambini, compresi quelli disabili (vedi De Luca G, Zappella M., L’alba dell’integrazione scolastica, a cura di M. De Luca, Roma, Carocci, 2013).
In quel contesto ci furono due diversi indirizzi. Da un lato c’erano scuole che cercavano di adeguarsi per l’accoglienza di bambini con disabilità: ricordo bene, per esempio, una scuola elementare a Monte San Savino, vicino ad Arezzo, che nel 1971-72 eliminò gli spazi di una classe speciale che aveva avuto al suo interno, articolando la didattica  in occasioni comuni come musica, teatro e mimica e mantenendo in altre ore i bambini con disabilità più gravi in ambienti meglio organizzati per loro. Dall’altro, invece, i bambini venivano messi in classe con gli altri, indipendentemente dal grado e tipo di disabilità: lo slogan più comune era “devono fare come gli altri”, per cui i diversi vanno trattati come i normali; una parola d’ordine che dopo tanti anni non è scomparsa. Anzi è diventata una indicazione politicamente corretta.
La prima svolta istituzionale a questo riguardo è nella legge che nel 1977 istituisce l’insegnante di sostegno e sposa in pieno il secondo tipo di soluzione,  assegnando il sostegno per tempi variabili a seconda della gravità della disabilità e dando al problema una soluzione individuale o, si usa dire oggi, ‘personalizzata’. Da allora, con poche eccezioni, avremo scuole in cui, nella maggior parte dei casi, c’è una stanzetta dedicata ai bambini più gravi e per il resto tutti i bambini, qualunque sia la loro difficoltà, sono in classe con gli altri. Non importa che siano iperacusici e che siano molto disturbati dalla confusione come dal suono della campanella, come spesso succede con i bambini autistici, che siano vittime del bullismo o che siano con abilità cognitive lontanissime da quelle degli altri: devono stare nella classe, quasi fosse un rigido plotone: "per non sentirsi esclusi" .  
La direttiva del Ministero sui BES del 5.3.13 va oltre le disabilità e si occupa anche dei  ragazzi stranieri che non conoscono la nostra lingua. Per loro, il buon senso e il confronto con altri Paesi europei avrebbero dovuto far pensare alla priorità assoluta dell’apprendimento della lingua italiana e quindi a questo scopo a studenti stranieri organizzati in maniera omogenea, eventualmente sulla base della loro lingua madre. Ci si aspetterebbero anche riscontri scientifici sui percorsi di maggiore validità educativa, visto che il problema esiste da molti anni. Invece per loro si scrive che “è possibile attivare percorsi individualizzati” e successivamente frasi stupefacenti come quella per cui “le 2 ore di insegnamento della seconda lingua nella scuola secondaria di primo grado possono essere utilizzate anche per potenziare l’uso della lingua italiana”(sic!). Come se non conoscere la lingua parlata in classe fosse piccola cosa che si può risolvere utilizzando le ore della seconda lingua o con percorsi individualizzati che non vengono definiti. Nei fatti ci si può immaginare che per molte ore i ragazzi stranieri siano costretti a stare in classe anche se non capiscono nulla di quello che si dice. Se questo fosse vero anche in piccola parte, questo tipo di ‘personalizzazione’ riuscirebbe paradossalmente ad avere per i figli degli immigrati precisamente quello che le scuole differenziali ottenevano per i figli dei nostri emigrati prima di quarant’anni fa: li porterebbe in un percorso educativo deprivato. Come allora i figli degli immigrati italiani, bambini normali il cui limite era nel dialetto e nella deprivazione culturale familiare, lasciati in classi differenziali erano condannati a un percorso lavorativo di quart’ordine, lo stesso verrebbe prospettato per i figli degli immigrati stranieri. La vera esclusione difatti non è nello spazio, ma nel tipo di percorso educativo: in questo caso del tutto inadeguato al punto di non capire nulla di quanto si dice o scrive in classe e gravemente impoverito rispetto alle possibilità di questi ragazzi che sono normali e hanno diritto a conoscere innanzitutto la lingua e la cultura del Paese dove vanno, per poter avviare un percorso educativo valido come gli altri. 
Qualche commento aggiuntivo merita il GLI (Gruppo di lavoro per l’Inclusione) che verrebbe ad avere nella scuola un ruolo predominante su vari aspetti dell’inclusione. Non è una novità: in Toscana abbiamo già avuto negli anni ottanta nelle USL il GOIF (Gruppo Operativo Istituzionale Funzionale), un gruppo numeroso e composto da diverse professionalità che si riuniva mensilmente. Lì i vari casi di disabilità venivano passati in rassegna da persone che in grande maggioranza non li conoscevano, spesso con proposte del tutto inadeguate, danneggiando così l’alunno in questione, in quanto nel rapporto tra insegnanti di classe e specialisti si inseriva come un corpo estraneo questo sciagurato raggruppamento. Il GLI appare come un simile collettivo giudicante, del tutto inadatto a gestire sia il singolo alunno in difficoltà che grandi fenomeni come, per esempio, il bullismo, che riguarda sia alunni normali (in particolare quelli più  bravi) sia quelli con disabilità, come i ragazzi con ADHD (iperattivi) e i soggetti autistici di discreta intelligenza. Ebbene, se si guarda la letteratura internazionale, le strategie più efficaci per contrastare questo fenomeno, presuppongono il coinvolgimento dell’intera scuola, comprendendo tutti i docenti, gli studenti e i rappresentanti dei genitori, per strutturarsi poi, con precise strategie e sanzioni, nelle singole classi (Olweus Dan, Promoting Education, 1, 27-31, 1994; Vreeman R.C. et al, “Archives Pediatric and Adolescent Medicine” 161, 78-88, 2007).
In questo modo nei Paesi scandinavi il bullismo è potuto scendere a valori sul 6%.  Non è dunque strano che l’Italia, che da decenni si trastulla tra prospettive ‘personalizzate’ e collettivi giudicanti del genere sopra indicato, abbia insieme alla Lituania il primato del bullismo tra i Paesi occidentali, con percentuali attorno al 40% (Due P. et al, “European Journal of Public Health” 15, 128-32, 2005).
Questo perché, ripeto, vi sono problemi, come quello appena citato, che vanno affrontati dall’intera comunità scolastica e poi suddivisi in tempi e modi successivi più specifici. Altre questioni relative, per esempio, a luoghi ben attrezzati di tempo libero di cui vari alunni con disabilità hanno, periodicamente, bisogno vanno anch’esse valutate a livello di comunità scolastica: se, invece, questi e altri bisogni sono ignorati, l’alternativa è passeggiare nel corridoio. Lo stesso discorso può essere fatto per intolleranze sensoriali e anche per particolari  esigenze didattiche.
Non affrontare questi problemi vuol dire avere una scuola rigida, incapace di modularsi e adattarsi rispetto a difficoltà e devianze. Legata a stereotipi della parte più rozza di un periodo antistituzionale ormai lontano nel tempo. Troppo spesso la scuola propone solo la classe come luogo elettivo di socialità e in questo modo rischia di non garantire la crescita intellettuale, emotiva e sociale di chi è diverso per lingua madre o per difficoltà e disabilità di qualunque genere.  
Michele Zappella 

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