giovedì 13 settembre 2012

LA FATICA DI INSEGNARE. Relazione di Valerio Vagnoli al Convegno "Star bene a scuola"

Per iniziativa della Gilda degli Insegnanti, si è tenuto oggi a Firenze il convegno STAR BENE A SCUOLA: dalla valutazione dello stress lavoro correlato al miglioramento della qualità di vita. Al centro dell’attenzione il fenomeno dello stress professionale e del “burn out”, che ne rappresenta l’esito in non pochi casi, esaminato da molteplici punti di vista: normativo, psicologico, medico, sindacale. Valerio Vagnoli, preside dell’Istituto Alberghiero “Aurelio Saffi” e membro del Gruppo di Firenze, ha svolto la relazione La fatica di insegnare, che pubblichiamo qui di seguito.

Ringrazio davvero l’amica Silvana Boccara per avermi dato la possibilità di trattare questo tema. Un tema che, se presentato a un largo pubblico anziché a degli addetti ai lavori quali noi tutti siamo,  probabilmente farebbe ancor oggi sorridere, con aria di sufficienza, non poche persone. Penso infatti che ancora siano in molti a ritenere l’insegnamento una sorta di non lavoro, un’impegno limitato a un numero ristretto di ore e di giorni e naturalmente più adatto alle donne che non agli uomini, anche in virtù della sua modesta retribuzione. Ed invece insegnare stanca sul serio e diventa sempre più  spesso un impegno  sfiancante sia fisicamente che psicologicamente. Ma più ancora del senso comune, è grave che anche chi ricopre responsabilità politiche e culturali di respiro nazionale continui a non rendersene conto. Vedremo più avanti  i motivi, o almeno parte di essi, per cui siamo arrivati al paradosso grazie al quale una professione considerata spesso privilegiata contribuisce invece  sempre più a far insorgere negli insegnanti e nelle insegnanti vere e proprie patologie in una misura oramai significativamente superiore ad altre categorie.
Ovviamente questa sorta di paradosso non è casuale e non è casuale che siano rarissime le occasioni come questa in cui si può parlare della difficoltà di questo mestiere. Il quale, dovendo contribuire, come pochi altri, a tenere  in tensione le corde più nobili  che caratterizzano il senso di civiltà di un popolo, si ritrova oggi in una condizione che talvolta rasenta l’umiliazione e patisce una vera e propria sofferenza psicologica.
Ma andiamo con ordine. Non vi è dubbio: lavorare stanca soprattutto, perdonate la tautologia, se si lavora; e, per inciso, prima o poi qualcosa di molto chiaro e definito dovrebbe essere detto anche su quella minoranza di docenti che lavorano molto poco o molto male e che non vivono assolutamente alcun senso di responsabilità in relazione al ruolo che essi ricoprono e rispetto alla formazione di coloro che saranno il futuro della nostra società.
Questa mia relazione, però, è dedicata a quelli che lavorano e che fanno il loro dovere; e proprio per questo, talvolta, capita che si sentano sconfitti e distrutti a causa di quello che fanno, o che vorrebbero fare senza però riuscirvi, per responsabilità che spesso non sono loro. Per la stragrande maggioranza dei docenti, insegnare costituisce comunque un impegno  psicofisico molto serio, anche quando non diventa un confronto logorante con allievi difficili o classi ingovernabili. In un mondo in cui la scuola, oltre a non garantire come un tempo un futuro lavorativo, non è più la fonte quasi esclusiva della conoscenza, in un mondo in cui l’attrattiva e il prestigio delle immagini, non solo televisive, rende più difficile l’ascolto puro e semplice della parola, tenere desta l’attenzione degli allievi è, lo sappiamo, un compito molto più arduo rispetto a quando eravamo noi cinquantenni e sessantenni a sedere nei banchi. Tanto più che la formazione dei docenti è stata fino a oggi quasi esclusivamente centrata sullo studio delle discipline da insegnare, pochissimo sull’apprendimento delle metodologie e per nulla sulle capacità relazionali. Nessuno ci ha insegnato almeno l’arte di parlare in pubblico, a modulare la voce a seconda della funzione che diamo alle nostre parole: informare, dialogare, redarguire, narrare, creare curiosità.
Per un docente, parlare significa tuttavia  garantire sempre la trasmissione dei contenuti senza tradire lo statuto disciplinare dell’argomento trattato e nello stesso tempo assicurare chiarezza e linearità espositiva. Impegno, anche questo, non episodico ma quotidiano, che costringe ad una costante valutazione di sé stessi. Secondo dopo secondo, tocchiamo con mano quali siano nella classe gli effetti del nostro lavoro; e niente è più demoralizzante quanto vedere vanificato il proprio impegno a causa di quelle “interferenze” che tutti abbiamo ben presenti, si tratti di comportamenti disturbanti o di palese e magari esibito disinteresse. E sappiamo che in un’ora di lezione queste interferenze possono essere tantissime, soprattutto se dobbiamo rivolgerci a classi sempre più numerose e  a un numero sempre più alto di ragazzi solitamente assai diversi per aspettative, per preparazione e per educazione. Scrive Primo Levi nel romanzo La chiave a stella: "Un pubblico distratto od ostile snerva qualsiasi conferenza o lezione".
Accanto alle situazioni di “normale” – si fa per dire – difficoltà, ce ne sono altre specialmente in certi indirizzi di studio, in cui la fatica diventa talvolta tale da potersi definire disumana, inaccettabile in un qualsiasi contesto lavorativo, soprattutto per la lesione alla dignità personale che comporta. Una situazione assai ricorrente negli istituti professionali, in cui sono sempre più numerosi gli studenti demotivati che vivono il loro trovarsi a scuola come una vera e propria costrizione, rendendo così la vita scolastica impossibile sia ai loro compagni sia a quei docenti che si trovano disarmati di fronte a situazioni degne piuttosto di curve da stadio che non di un contesto scolastico.
A rendere sempre più drammatica l’ esperienza di molti docenti, vi è da tempo una loro diffusa e ben orchestrata colpevolizzazione che sempre più frequentemente li vede indicati come i soli responsabili delle situazioni ingestibili, come incapaci di motivare e coinvolgere studenti spesso demotivati, ma sostenuti da genitori iperprotettivi che accusano la scuola di non essere in grado di capire e valorizzare i loro figli. Va detto con forza che aver colpevolizzato la scuola quale pressoché unica responsabile dei fallimenti degli studenti, ha contribuito a deresponsabilizzare le famiglie rispetto ai loro compiti educativi, con la conseguenza che sono sempre più numerosi i ragazzi (ma anche i bambini) che non riconoscono autorevolezza al docente e che intendono la scuola, nella migliore delle ipotesi, come un castigo a cui si devono sottomettere per legge, per consuetudine o per volontà dei genitori.
Va aggiunto, inoltre, che la mancanza di un serio sistema di formazione professionale obbliga molti adolescenti a frequentare le aule scolastiche contro la loro volontà, senza quindi reali motivazioni. La conseguente, inevitabile serie di frustrazioni si traduce spesso in continue provocazioni nei confronti dei loro docenti che si trovano talvolta isolati nell’affrontare situazioni di ogni genere,  che molti di voi purtroppo conoscono assai bene.
Ma, tornando a quanto poco prima accennato, cioè a quella ormai diffusa abitudine da parte dei genitori, e di una parte dell’opinione pubblica, di colpevolizzare i docenti per i mali del sistema scolastico, ritengo che questa tendenza non sia nata spontaneamente, ma sia in gran parte da addebitare a tutti coloro - politici, sindacalisti, opinionisti, pedagogisti - che hanno preteso che la scuola diventasse completamente subalterna a presunti “diritti” dell’utenza; beninteso non di quelli sacrosanti che sono alla base di un sistema scolastico democratico, ma quelli compendiabili un po’ all’ingrosso nel motto: il cliente ha sempre ragione. Del fatto che i diritti abbiano senso se declinati insieme ai corrispondenti doveri, quasi mai si sente parlare. Binomio, questo, irrinunciabile in un percorso educativo che si ispira ai principi della democrazia, altrimenti vi è il rischio (o meglio la certezza) di non tramandare alle future generazioni il rispetto della legalità, delle regole e della stessa democrazia. Sono fermamente convinto che certa deriva populista dei nostri ultimi anni abbia trovato la propria palestra proprio nella politica scolastica degli scorsi decenni, che ha destrutturato la qualità del sistema scolastico facendo credere che la scuola di massa equivalesse alla soddisfazione delle pretese, delle aspettative dell’utenza, quest’ultimo orribile termine che inaugurò un vocabolario scolastico educativo di cui vergognarsi se paragonato ai termini chiari e specifici della nostra tradizione scolastica. Una destrutturazione - quella della scuola e dei docenti, ma anche dei ruoli genitoriali - portata avanti anche da persone in buonafede che si riconobbero nelle proposte educative dei tanti dottor Spock che fiorirono nel e dopo il ’68 e che assimilarono da maestri del genere la visione di una scuola priva di regole e di rigore. Ancora oggi molti continuano a scambiare per autoritarismo l’imposizione di limiti e di regole, di cui è fatto l’indispensabile, graduale percorso di accettazione del principio di realtà. Questo protrarsi di un’acritica deriva antiautoritaria ha finito per indebolire gravemente la capacità degli educatori di guidare e sostenere la crescita dei ragazzi. Naturalmente simili concezioni non si sarebbero affermate così facilmente senza il contributo dell’evoluzione demografica, che ha trasformato i figli in un “bene scarso”. In quanto tale, un bambino si trova spesso circondato da premure, preoccupazioni e aspettative che gli consegnano un elevato “potere negoziale”, diciamo pure di ricatto, se i genitori non sono consapevoli delle reali necessità del suo sviluppo. Delle conseguenze del passaggio dall’educazione tradizionale a quella che convenzionalmente chiameremo “post-sessantotto” si sono resi conto gli psicoterapeuti osservando l’evoluzione delle difficoltà psicologiche. Dagli anni sessanta a oggi sono via via diminuite le patologie derivanti da un Super-Io troppo esigente, mentre crescevano a dismisura le patologie del narcisismo: bisogni compulsivi di attenzione, permalosità, capricci, sentimenti di onnipotenza, oppositività.
Come poteva questa crisi educativa non riflettersi sulla scuola in modo spesso distruttivo?
Tra le specificità italiane, oltre alla nota pervasività del codice materno, non più riequilibrato da quello paterno, c’è ancora una volta da ricordare il donmilanismo. E in quegli stessi anni molti di coloro che nel mondo della scuola apprezzarono Lettera a una professoressa per aver messo in evidenza la correlazione tra estrazione sociale e insuccesso scolastico non vollero accorgersi, di fronte alla per certi aspetti esaltante esperienza di Barbiana, come proprio da quella esperienza uscisse rafforzata la figura di un docente rigoroso e garante di regole rigidissime da far rispettare anche a costo di punizioni davvero poco ortodosse. E da quella esperienza maturò anche un modello scolastico che non si volle vedere come unico e irripetibile anziché, come finirà poi per diventare, alternativo alla scuola di Stato sempre più vista, da allora e da certi progressisti per vocazione, perennemente conservatrice, inadeguata, elitaria e, insieme ai suoi docenti, addirittura classista.
Sono convinto, e per fortuna non sono il solo, che la deriva della scuola sia partita anche da questi processi, che senz’altro hanno la loro responsabilità anche nell’aver reso il lavoro dei docenti inutilmente più faticoso e di conseguenza sempre più inutile.
Ma per capire quali siano le conseguenze di tale deriva e da quale tipo di fatica e dolore sia oggi caratterizzato il lavoro dei docenti, può essere indicativo riflettere sulla recentissima, inaudita, vergognosa, campagna di vero e proprio linciaggio politico e mediatico da caccia alle streghe a cui sono state sottoposte, questa estate, le maestre elementari di Pontremoli, colpevoli di aver bocciato dei bambini in prima elementare. Maestre e dirigente scolastico sono stati vilipesi, oltre che dai soliti eredi di don Milani, da politici cosiddetti dell’area progressista, da sindacalisti e perfino da esponenti dello stesso ministero che ha imposto loro un paio di ispezioni facendo tuttavia finta di nulla sul fatto che le poverette avevano condiviso la bocciatura con i genitori e che erano state costrette a insegnare in una prima di ben 31 bambini. Numero, questo, già di per sé ampiamente sufficiente per definire pedagogicamente  criminale il sistema che ha permesso la costituzione di una classe di prima elementare così numerosa in un’ area peraltro a largo flusso migratorio.
Ma tornando a quanto dicevo poco fa, credo che un ruolo altrettanto importante e forse determinante in questo sistematico processo di distruzione del sistema scolastico nazionale, che ha portato alla delegittimazione del ruolo dei docenti, lo abbiano avuto quelli che a mio parere sono i veri poteri forti della politica scolastica. Poteri ben organizzati e spesso legati a cospicui interessi economici, riconducibili in linea di massima ad un certo mondo universitario e ad altri noti soggetti e agenzie legati al business dell’aggiornamento e tutti quanti ben coperti, per dirla col Manzoni, da “Potentati e qualificati Personaggi”. È anche in questo contesto, in una scuola cioè fortemente de-istituzionalizzata, che dobbiamo percepire la drammaticità dei dati che Lodolo D’Oria, uno dei rarissimi studiosi che si stia occupando seriamente nel nostro Paese delle patologie legate al lavoro docente, ci fornisce attraverso alcuni suoi recentissimi studi. Per esempio, le sue ricerche hanno evidenziato, anche se limitatamente a Milano, che negli ultimi vent’anni le diagnosi psichiatriche, nella scuola, sono notevolmente aumentate e una crescita progressiva l’abbiamo avuta anche nelle neoplasie di carattere prettamente femminile; e sempre più femminile sta diventando il nostro corpo docente. Attualmente le donne ne rappresentano l’ 82%  con un’età media di oltre 50 anni; età che in linea di massima coincide con il periodo perimenopausale e per questo fortemente soggetto alla depressione. Rispetto a tutto ciò si sentono, in verità, poche convinte denunce, per esempio sulle conseguenze che si possono avere sul piano delle patologie in virtù dell’aumento dell’età pensionabile, in particolare proprio in relazioni alle docenti. Temo che in alcuni sindacati sia ancora troppo radicata l’idea di cui si diceva poco fa, quella per cui l’insegnante sarebbe un privilegiato, soprattutto rispetto agli operai, come mi sentii dire anni fa da una sindacalista formatasi come funzionaria del comparto metalmeccanico, che forse proprio per questo fu poi incaricata dal suo, allora anche mio, sindacato di seguire il comparto scolastico. E temo, ritornando al problema delle patologie delle insegnanti, che gli interventi di prevenzione previsti dall’accertamento da stress da lavoro correlato, reso obbligatorio dalla recente normativa, rischino di diventare una mera formalità se su questi aspetti  sia le scuole che le organizzazioni professionali e sindacali non si preoccuperanno di procedere ad un capillare monitoraggio di ciascuna scuola individuando  tutte quelle criticità che finiscono col determinare la buona o la cattiva salute del personale scolastico, in particolare di quello docente. E consiglierei di soffermarsi soprattutto su quei contesti scolastici dove tutto sembra filare liscio e dove, per esempio, si nega l’esistenza dell’uso di stupefacenti all’interno della scuola, o dove non vengono prese da parte dei DS opportune iniziative nei confronti dei docenti che non fanno il loro dovere e che così facendo implicitamente svalutano e rendono molto frustrante il lavoro dei loro colleghi; o ancora dove si fa finta di nulla rispetto ai problemi disciplinari degli allievi, rinunciando per principio, nei loro confronti, a qualsiasi iniziativa di carattere disciplinare, anche rispetto ad episodi che sconfinano nel codice penale. Senza parlare poi delle difficoltà che sempre di più i docenti, come abbiamo visto poco sopra, incontrano nei rapporti con le famiglie e che talvolta li vede, anche in caso di offese e minacce, completamente abbandonati dall’istituzione. Ma è anche vero che esistono numerosi docenti che non conoscono quasi niente rispetto ai loro doveri: potrei citare decine e decine di episodi legati alla mia esperienza di dirigente scolastico, compreso quello abbastanza recente che mi ha visto destinatario di un documento redatto da un gruppo di insegnanti guidati da due rappresentanze sindacali interne alla scuola, devo riconoscere che quello della Gilda ne aveva preso le distanze, che  richiamavano i  miei compiti   enumerandoli   citando una sentenza della Cassazione del 1990, avete capito bene, del 1990 che, appunto, declinava quelli che erano allora i compiti dei presidi come se nel frattempo non ci fosse stato, col Decreto legislativo 165/2001, il varo della dirigenza scolastica.  E magari qualcuno di loro aveva anche scioperato contro il decreto Brunetta senza sapere tuttavia come quel decreto, condivisibile o meno, avesse dato, rispetto al Dlgs 165, ulteriori responsabilità ai dirigenti!
Ma torniamo alla quotidianità del loro lavoro, alla loro fatica quotidiana che diventa insormontabile quando è accompagnata da paura, sconforto, debolezza: dalla certezza di essere battuti, una volta entrati in classe, da ragazzi difficili o spietati, rispetto al cui comportamento diventa talvolta anche impossibile fare l’appello. E in quella confusione destinata a ripetersi giorno dopo giorno si cancellano anni di studio, di attese, di progetti, mentre nella solitudine e nello sconforto si finisce per vivere tutte le difficoltà della situazione esclusivamente come personale fallimento. A tale proposito e per confermare in qualche modo come certe forme di disagio facciano oramai parte della quotidianità della vita scolastica e come questo disagio sia  talvolta del tutto ignorato anche dagli stessi colleghi, mi preme segnalare parte di una lettera di un giovane docente pubblicata il 12 marzo scorso sul “Corriere fiorentino” nella rubrica I quaderni della Profe a cura di Antonella Landi. Tra le altre cose il giovane insegnante confessa che quando un anno fa venne  nominato supplente,  non aveva percepito come gli alunni delle classi in cui era “ stato catapultato mi vedevano come un pischello indifeso. I colleghi, probabilmente  mi vedevano anche peggio. Per incoraggiarmi, anziché decantare gli aspetti positivi delle classi che stavo per conoscere e consigliarmi una via da percorrere per inserirmi meno dolorosamente possibile, si dilettavano ad elencare nomi, cognomi e malefatte dei più urticanti elementi di quelle mandrie brade che sono gli studenti delle scuole professionali, quelli di serie B”.
È pur vero che il nostro confuso e disorganizzato, ma non affatto casuale, sistema di reclutamento del personale docente ha permesso che entrassero alla fine nella scuola anche docenti del tutto inidonei psicologicamente al loro compito. Ma è anche vero che spesso non sono solo i docenti del tutto inadeguati al loro ruolo ad uscire distrutti dalle classi. Come ho accennato all’inizio di questo intervento, quasi sempre la fatica finisce col distruggere anche gli insegnanti appassionati, competenti e generosi. Né è giusto sottoporre quei docenti, da sempre inadeguati ed entrati nella scuola in virtù di combinazioni normative indegne di un paese civile, all’umiliazione di dover vivere per sempre la loro esperienza lavorativa in balìa di classi scatenate che, è bene dirlo con chiarezza, a loro volta hanno diritto ad avere docenti equilibrati e degni di una professione che senz’altro è tra quelle che richiede profonde competenze e in ambiti non solo prettamente disciplinari.
Solitamente, ad aggravare la condizione di questi docenti, vi è, ripeto, il loro totale isolamento, molto spesso voluto dai diretti interessati perché, ribadisco, il non riuscire a gestire la classe o a organizzare una didattica degna di questo nome è vissuto da molti docenti in difficoltà come  una propria colpa, tanto è diffusa - e ahimè acquisita - la fandonia che dietro ad ogni fallimento scolastico vi sia la pressoché esclusiva responsabilità dei docenti. Di solito, gli altri docenti e gli stessi dirigenti fanno ben poco per evitare che l’insegnante viva in completa solitudine questa sua terribile personale mortificazione. Il più delle volte certe situazioni decisamente drammatiche, concreta manifestazione di vero e proprio burn out, sono affrontate dai DS cercando mediazioni con le classi finalizzate ad arrivare in un modo o nell’altro alla fine dell’anno nella speranza che il docente in difficoltà poi si trasferisca. Gli altri insegnanti spesso ritengono che il problema non li riguardi e che debba essere risolto dal dirigente scolastico.
Credo, invece, che una delle risposte migliori per rendere meno faticoso il lavoro dei docenti le si debbano andare a cercare all’interno delle singole scuole, “socializzando” quanto più possibile i problemi e facendo riferimento, per risolverli,  soprattutto ai colleghi della stessa scuola che sono in grado, attraverso la loro esperienza, di rappresentare dei punti di forza  imprescindibili e sicuramente molto più affidabili  rispetto a tanti esperti esterni. Troppo spesso, infatti, questi ultimi vorrebbero insegnare come si deve lavorare con dei ragazzi, con dei bambini, con degli adolescenti, senza tuttavia averlo mai fatto all’interno di un sistema scolastico. Insieme ad una maggiore e vera solidarietà tra docenti occorre, per rendere senz’altro meno faticoso e problematico il lavoro degli insegnanti, che si crei sempre di più il senso di appartenenza ad una stessa comunità le cui regole siano intese e rispettate come un vero e proprio  patrimonio comune. Ancora troppo spesso la scuola e i docenti tendono a proporsi alla stesso modo col quale hanno vissuto, da studenti, la loro lontana esperienza scolastica. Se un tempo, e abbiamo già visto quanto sia drammaticamente alta l’età media dei docenti italiani, era del tutto naturale insegnare in completa solitudine e chiudersi la porta  dell’aula alle proprie spalle, oggi questo non è assolutamente più possibile ed i motivi dovrebbero essere a tutti ben noti.  Perciò sarebbe opportuno che ogni scuola organizzasse un sistematico lavoro in cui, attraverso il confronto delle diverse esperienze, si affrontassero le difficoltà legate all’insegnamento, partendo proprio dai casi concreti interni all’istituto. E in ciascuna scuola dovrebbero sempre trovare spazio delle figure di riferimento, magari individuate tra i docenti più esperti, per coloro che hanno minore esperienza e per coloro che, appunto, necessitano di supporti di carattere metodologico e psicologico. Oggi ciascun problema, ciascuno successo, ciascuna sofferenza deve appartenere alla comunità scolastica e vale sempre la pena di ricordare che non si possono, non si devono abbandonare alla loro deriva i colleghi che durano maggior fatica, perché come fanno i torrenti “ruinosi” la corrente piano piano scarnifica gli argini, fino a divorarli del tutto dove il tutto rappresenta essenzialmente la nostra credibilità, la credibilità, appunto, della scuola pubblica. Grazie per la vostra paziente attenzione.
Valerio Vagnoli 

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