martedì 6 maggio 2008

Relazione introduttiva al convegno "MERITO E LEGALITA' NELLA SCUOLA ITALIANA" (4 maggio 2007)

di Giorgio Ragazzini

Intitolando questo convegno “Merito e legalità nella scuola italiana” abbiamo voluto sottolineare l’urgenza di una politica di riconoscimento del merito, che valorizzi i tanti studenti e i tanti docenti che lavorano seriamente, con senso di responsabilità, e tuteli così il diritto di apprendere e quello di insegnare in un ambiente sereno. Questo non può che avvenire stabilendo e facendo rispettare regole chiare a tutti i soggetti interessati.
Purtroppo la scuola mortifica spesso il merito. E lo fa tutte le volte che mette sullo stesso piano lo studente che s’impegna e quello che non s’impegna; chi si comporta correttamente e chi no; chi arriva puntuale e chi spesso in ritardo; chi frequenta regolarmente e chi fa molte assenze; e naturalmente, il merito è mortificato quando chi non ha studiato viene promosso esattamente come chi ha lavorato. E tutto questo, si capisce, mortifica a sua volta la qualità complessiva dell’istruzione, incidendo di certo non poco sui nostri modesti risultati nelle indagini Ocse.
Al terzo comma dell’articolo 34, la Costituzione dice: “I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Dice proprio così: non “Tutti”, ma “I capaci e meritevoli”. Ciò non significa che la scuola, divenuta scuola di massa, possa non dedicare attenzione, cura e aiuto a chi è in difficoltà. Anzi, ne ha il dovere. Ma ha anche il dovere di promuovere chi non fa nulla?
È vero che le dinamiche psicologiche che portano un ragazzo a “andar male a scuola” sono complesse. Questa consapevolezza è fondamentale per elaborare strategie didattiche. Ma sarebbe una pessima teoria educativa quella che mettesse gli adulti nella condizione di non poter richiamare un figlio o un allievo alle sue responsabilità.
Se applichiamo ai docenti la categoria del merito, naturalmente ci imbattiamo nello spinoso e controverso problema della “valutazione”.
Il primo, decisivo momento di valutazione è quello dell’accesso alla professione, che dovrebbe essere selettivo non solo a livello culturale e metodologico, ma anche su quello psicologico-relazionale.
In attesa di forme più affidabili di reclutamento, ma sapendo che anche il miglior sistema può avere qualche... maglia troppo larga, non possiamo scantonare di fronte a un problema delicato, che riguarda un’esigua minoranza di docenti, ma che, quando si manifesta, danneggia fortemente la credibilità della scuola, oltre che i ragazzi direttamente interessati. Mi riferisco alla necessità di poter prendere efficaci e tempestivi provvedimenti in tutti i casi in cui un docente si riveli chiaramente inadeguato o inadempiente; con le dovute garanzie, che però non devono come oggi essere tali da rendere impossibile la soluzione del problema; né è decoroso spostarlo, questo problema, da una scuola a un’altra. È la questione del cosiddetto “demerito”. Un caso esemplare ce lo ha fatto conoscere l’articolo Fannulloni, il caso del professor M., pubblicato nell’ottobre scorso sul “Corriere della Sera”, in cui il professor Ichino racconta e commenta la vicenda di un docente assenteista e nullafacente che resta tranquillamente al suo posto, a dispetto di una norma che ne consentirebbe il licenziamento.
Solo un cenno a un terzo momento in cui in futuro si renderà necessaria una valutazione competente e affidabile, quello dell’accesso a quei nuovi ruoli specializzati che appaiono sempre più necessari al buon funzionamento delle scuole: insegnanti che si occupino di aggiornamento e di ricerca didattica, di formazione dei nuovi docenti, di progettazione di piani di studio.
Invece, non mi convince affatto l’idea che la qualità del lavoro di un docente possa essere valutata misurando i progressi dei suoi allievi, per via del gran numero di fattori che entrano in gioco nel processo di apprendimento. Francamente penso che per la scuola italiana una reale selezione in entrata e la possibilità di intervenire nei casi di palese insufficienza professionale costituirebbero di già una notevolissima spinta verso l’alto del livello medio dei docenti.
Come abbiamo visto, parlando di merito siamo già entrati più volte nel campo (o nella selva) della normativa: leggi, regolamenti, circolari. I due temi che danno il titolo al nostro incontro ci si mostrano subito come facce di uno stesso problema.
E per diversi aspetti la scuola si presta a essere analizzata come capitolo del voluminoso dossier intitolato dai radicali “Caso Italia”, il caso cioè di un paese in cui le norme vigenti sono spesso ridotte a puro e semplice richiamo o consiglio, e che, nella graduatoria di Transparency International, quanto a legalità è appena un gradino sopra a quello della Nigeria e l'ultimo in Europa.
C’è – abbiamo visto – chi non fa nulla senza conseguenze; ma un problema anche più grave, perché molto più diffuso, ma di cui pochissimo si parla, riguarda il momento delle valutazioni finali e degli esami, quando si deve tra l’altro decidere se promuovere o meno. È evidente di quale interesse sia per la collettività una valutazione che si sforzi di essere equa e obbiettiva, e quindi affidabile. Purtroppo molti colleghi – che quali rappresentanti della Pubblica Amministrazione sarebbero tenuti a informare il loro operato ai principi di correttezza ed imparzialità – sono stati indotti a credere di essere titolari, come Consiglio di classe, di un potere praticamente assoluto, che consente di trasformare i 4 e i 5 in false sufficienze, purché venga appena enunciata a favore dell’allievo una qualsiasi pseudomotivazione di natura psicologica, familiare o sociale. Da notare che, mentre per la mancata ammissione a un esame o alla classe successiva viene in genere richiesta una serie di motivazioni e l’elenco di quanto fatto per prevenire questo esito, una promozione, invece, per quanto immeritata, è sempre la benvenuta.
In questo quadro ha il suo rilievo anche la quasi totale assenza, nella scuola italiana, di una cultura professionale analoga quella di altri paesi e quindi anche di un’etica professionale discussa e condivisa. Che io sappia, l’’Adi è stata la prima associazione professionale ad approvare un proprio codice etico-deontologico. Ma i sindacati della scuola hanno sempre rifiutato pervicacemente di riconoscere ai docenti norme e istituti di cui godono da tempo altre professioni.
Altra falla della “legalità” scolastica: quella che riguarda la “condotta”, il tabù di cui parlerà, nell’audiovideo in programma, Mario Pirani (tanto tabù che non credo sia mai stata tema di aggiornamento). Un tempo col sette in condotta si andava a settembre in tutte le materie. Non so quante volte si sia concretizzata questa possibilità; certo il messaggio era chiaro: per la scuola, e quindi per la società, il sapersi comportare (sufficientemente) bene era altrettanto importante del “profitto”. Nel 1998, con l’ultragarantista Statuto degli Studenti e delle Studentesse, la pedagogia falsamente progressista e il suo massimo referente politico, il Ministro Berlinguer, hanno creduto di far progredire la scuola eliminando ogni legame tra comportamento e valutazione, oltre a rendere più difficili da prendere i provvedimenti disciplinari. Anche per questo, i molti e strombazzati progetti di ”educazione alla legalità” convivono spesso con uno scarsissimo rispetto del regolamento d’istituto, in altre parole della “legalità” interna. Come ha scritto nei giorni scorsi Ernesto Galli Della Loggia, l’Italia democratica “può cercare di insegnare l'educazione civica a scuola, ma nello stesso momento in cui lo fa mostra pateticamente quanto lei per prima creda poco ai suoi precetti, non riuscendo a impedire in quella stessa scuola il venir meno di ogni norma di condotta, lo scatenarsi della più generale indisciplina.”
Ricordo che il “documento Bertagna”, ispiratore della riforma Moratti, la quale però se ne allontanò in più punti, tra le “leve” per innalzare la qualità complessiva del sistema annoverava proprio il ripristino di quel nesso, sostenendo che “i cosiddetti debiti formativi ... riguardano non solo il profitto, ma anche, a pari peso, il comportamento dei soggetti (la tradizionale condotta)”. Ma purtroppo non se n’è fatto di nulla. La condotta è sì valutata, ma senza alcuna conseguenza pratica.
Non c’è da stupirsi quindi che in questi mesi la cronaca abbia registrato episodi di bullismo, di offesa e anche di aggressione impunita nei confronti dei professori, episodi che sono la manifestazione più vistosa di un malessere generale. E se il mancato rispetto delle regole basilari della convivenza civile supera il livello fisiologico, è ovvio che l’apprendimento diventa problematico e faticoso quando non impossibile. Di nuovo, non mi risulta che nel valutare i risultati delle indagini internazionali sui sistemi scolastici, sia stato messo nel conto il condizionamento del quadro culturale e psicologico in cui si opera. Mi spiego: ci dovrebbe essere una bella differenza tra insegnare in Giappone o in Corea – dove la scuola (severissima) è quasi sacra ed è rispettata di conseguenza – e farlo da noi, dove sembra invece aver perso drasticamente credito e prestigio.
Indubbiamente è diventato molto più complicato percepire con chiarezza la scuola come strumento di promozione sociale, di costruzione del futuro, come avveniva anche solo quarant’anni fa.
Ma questo non spiega tutto. Secondo me non si capisce un granché del dramma della scuola, se non la si inquadra in una vera e propria crisi dell’educazione nelle società avanzate, come ormai risulta da un’ampia saggistica. Il punto è che educare, cioè fare il genitore, ma anche fare l’insegnante, per molti motivi di carattere culturale e sociale è diventato in questi decenni più difficile. Ma se è così, allora è ovvio che i problemi della scuola non si affrontano soltanto con nuove metodologie, con la multimedialità, con le riforme dei programmi. C’è bisogno prima di tutto di una teoria e di una pratica educativa basate sulle necessità effettive (non immaginarie) dello sviluppo psichico: per esempio, l’accettazione del principio di realtà, l’indispensabilità di regole e confini, la necessità di una guida capace di fermezza.
L’ondata antiautoritaria che ha investito l’occidente è stata per molti aspetti necessaria e positiva; ma è altrettanto vero che è mancata una successiva rielaborazione che ne convalidasse le conquiste essenziali, liberandole però dagli eccessi e dalle sciocchezze che hanno accompagnato questo “terremoto” socio-culturale. I personaggi che si muovono oggi sulla scena educativa sono il bambino “tiranno”, il genitore debole e a volte impotente, l’insegnate smarrito e privo di convinzione. Da una decina d’anni è in corso un ripensamento, sempre meno minoritario, ad opera soprattutto di psicoterapeuti (tra cui il dott. Poli), alle prese con i tanti genitori in crisi. Ogni tanto compaiono anche articoli e copertine sul “no” nell’educazione (ricordo anche una divertente sequenza in Caro diario di Moretti); ma risalire la china è tanto indispensabile quanto faticoso.
Per la verità alcune voci – isolate – si erano levate per tempo. Particolarmente lucida, già nel 1971, quella del grande etologo Konrad Lorenz: “A causa del principio educativo della ‘non frustrazione’, migliaia di bambini sono diventati dei nevrotici infelici. Il bambino che vive in un gruppo privo di struttura gerarchica si trova in una situazione del tutto innaturale. [...] L’assenza di un ‘superiore’ più forte dà al bambino la sensazione di essere indifeso in un mondo ostile, sensazione giustificata in quanto i bambini ‘non frustrati’ non piacciono a nessuno. Quando, in stato di comprensibile irritazione, egli cerca di provocare i genitori e di attirare su di sé la loro collera, [...] il bambino non incontra la risposta aggressiva che istintivamente attende e in cui inconsciamente spera, ma urta contro il muro di gomma delle frasi pacate e pseudo-razionali. Nessuno si identifica con un essere debole e sottomesso, nessuno è disposto a farsi prescrivere da lui le norme del comportamento.”
Fatto sta che a scuola, in molte famiglie e in tante pieghe della società (e non solo delle istituzioni), assistiamo a una vastissima abdicazione rispetto alle proprie responsabilità, a una rinuncia all’“auctoritas” (etimologicamente “il potere di far crescere”) con danni serissimi alle nuove generazioni: genitori, insegnanti, autorità di ogni tipo fuggono a gambe levate di fronte a ogni provvedimento anche solo vagamente sgradevole e impopolare.
Utilizzando un’efficace metafora informatica del dottor Poli, si può dire che i “virus” del buonismo, del giustificazionismo, dello psicologismo, diffusi a piene mani per decenni nella società e nella scuola italiana, hanno danneggiato il “software educativo” dei genitori quanto quello di tanti docenti preparati e anche appassionati. Si trovano insegnanti “virati” di qualsiasi livello professionale.
Il catalogo dei virus offre una vasta scelta: “La bocciatura è sempre un fallimento della scuola” (potentissimo, si collega a un delirio di onnipotenza e azzera la responsabilità dell’allievo); “Ogni ragazzo è un caso a sé” (efficace formula con la quale molti insegnanti ribattono a chi rileva che è ingiusto verso chi ha studiato promuovere chi non lo merita); “Son ragazzi!” con la variante “Siamo stati ragazzi anche noi...” (ottimo per passar sopra a imprese vandaliche di ogni tipo); “Eh, ha dei problemi familiari” (diffusissimo e quasi infallibile, è utilizzato anche da alcuni psicologi delle Asl che si trasformano in avvocati difensori).
Oltre ai fattori di crisi che accomunano molti sistemi scolastici avanzati e agli strascichi della stagione antiautoritaria a cui ho già accennato, va anche ricordato un evento che riguarda, direi esclusivamente, la storia della scuola italiana.
Proprio quarant’anni fa, nel giugno del 1967, usciva un libro memorabile: Lettera a una professoressa di Don Lorenzo Milani, che accusava in modo documentato di classismo la scuola italiana e proponeva di abolire la bocciatura nella scuola dell’obbligo, (anche se stranamente il libro nasceva dalla bocciatura di due allievi di Don Milani da parte dell’Istituto magistrale Pascoli).
L’idea di rivolgersi direttamente a una professoressa “cattiva” risultò estremamente efficace, anche per la grande forza della scrittura milaniana. L’influenza della Lettera sull’evoluzione successiva della scuola italiana è stata enorme. La presa di coscienza di quanto l’ambiente familiare e sociale potesse costituire un grave handicap per molti ragazzi era senza dubbio doverosa. Altrettanto incontestabili sono state la colpevolizzazione e il discredito che questo pamphlet ha contribuito a gettare per decenni sugli insegnanti, come agenti della selezione di classe, da tenere a bada e mettere in condizioni di non nuocere. E magari da rieducare con opportune campagne di aggiornamento. E perché non nuocessero sono stati inseriti nel sistema i virus di cui sopra e creati due tabù: la bocciatura e la sanzione disciplinare. Si può ben dire, infatti, che di don Milani trasfuso nella scuola pubblica dal donmilanismo è alla fine rimasto soprattutto il comandamento del non bocciare, spesso completamente scorporato da serietà, rigore, richiesta di impegno.
Eppure don Lorenzo, maestro severo ed esigentissimo, che faceva scuola ai ragazzi per 365 giorni all’anno contro i duecento di oggi, sulla necessità di una guida ferma e forte aveva scritto a un professore di una media statale: “Vi siete forse illusi di poter fare una scuola democratica? È un errore. La scuola deve essere monarchica assolutista e è democratica solo nel fine, cioè solo in quanto il monarca che la guida costruisce nei ragazzi i mezzi della democrazia”.
Che fare per invertire la rotta? Il problema si pone sui due livelli, distinti ma connessi, quello educativo e quello politico.
Un obbiettivo è quello di riequilibrare la cultura educativa, e naturalmente un grande ruolo ce l’hanno gli addetti ai lavori, soprattutto gli psicologi e gli psicoterapeuti con la loro opera di divulgazione. L’essenziale sta nell’aiutare gli adulti ad assumersi, nell’interesse dei ragazzi, il ruolo di guida disponibile e affettuosa, sì, ma anche ferma quando occorre, nelle forme opportune per ciascuna età. A quanto ho letto non è mai troppo presto per cominciare a integrare la funzione protettiva con quella dell’allenamento ad affrontare la realtà e a seguire delle regole. Addirittura c’è chi, come il noto pediatra francese Aldo Naouri, ritiene che si debba tornare a un’alimentazione del neonato a ore relativamente fisse, in quantità fisse, e non più in base alla sua richiesta e senza limiti nelle dosi.
Per declinare in termini politici questi temi, i partiti, il Parlamento, i Governi devono essere guidati da una maggiore consapevolezza del problema educativo nei suoi termini reali, superando cioè quella mielosa visione puerocentrica e giovanilistica che ha fatto già troppi danni. Per capire la posta in gioco basta questa riflessione: dove mai si formano, se non soprattutto nella famiglia e nella scuola, quel famoso senso civico di cui tutti lamentano l’insufficienza e quel rispetto della legalità che è alla base della libertà e della democrazia?
Dicendo questo – e mi avvio a concludere – mi sento pienamente all’interno della cultura politica radicale e allo stesso tempo in sintonia con persone di varia appartenenza politica, e tra queste parecchi genitori e docenti. Per questo sono convinto della necessità e anche della possibilità di promuovere uno schieramento trasversale per la rinascita della scuola – qualcosa che nel metodo ricordi la LID, la Lega Italiana per il Divorzio – che sappia sfidare i tabù e i luoghi comuni che su questi temi si sono venuti accumulando, soprattutto, ma non solo, a sinistra.
Intanto vanno colti con speranza i molti riferimenti al merito (anche nella scuola) che si sono sentiti in tanti interventi recenti di uomini politici. Nel congresso della Margherita ho addirittura ascoltato il deputato Roberto Giachetti (già militante radicale) sottolineare l’importanza di “recuperare nella scuola i concetti di autorità e disciplina”. E poi c’è la grande esperienza innovatrice di Tony Blair a cui guardare anche sotto questo profilo. Anche combattendo i comportamenti antisociali e puntando nella scuola sul rispetto delle regole, ha saputo rinnovare la sinistra proprio criticandone i molti riflessi conservatori e perbenisti. Questo per la “prospettiva strategica”.
Quanto agli obbiettivi specifici, un’agenda politica per la scuola che voglia tenere conto di queste priorità dovrà comprendere, quanto meno, nuove regole per garantire valutazioni finali eque e affidabili, fondate sui risultati effettivi. La valutazione della condotta dovrà pesare sul risultato complessivo, sia in senso positivo (per esempio con una maggiorazione del credito scolastico all’esame di Stato, per chi si è comportato bene), che negativo, fino ad arrivare, nei casi più gravi, a far ripetere l’anno. Dovrà essere quindi rivisto lo Statuto degli Studenti, anche per fare in modo che non tuteli di fatto chi si comporta male. Come si è detto, è necessaria poi una riforma dello stato giuridico dei docenti, inclusiva di norme sul reclutamento, sulle nuove specializzazioni dei docenti e sul demerito professionale. Mi auguro poi che i docenti italiani siano chiamati a darsi un codice deontologico e che l’associazionismo professionale, in genere favorevole a valorizzare il merito, abbia la forza di ridimensionare il sindacalismo conservatore che prevale nella scuola.
Con queste sommarie indicazioni, che spero altri potranno integrare, ho esaurito il mio compito e vi ringrazio per l’attenzione.
Il Convegno fu organizzato dall'Associazione per l’iniziativa radicale “Andrea Tamburi” con Radicali Italiani